«Non sono stato io, è stato il mio cervello ». Vi sembra una cosa brillante da dire davanti al giudice? Dipende: se lo dite mentre l’ avvocato difensore proietta una lastra che mostra come alcune particolarità cerebrali vi impediscano di trattenere gli impulsi, può essere una strategia produttiva. Che pone un interrogativo: chi siede davvero nella cabina di pilotaggio del nostro corpo?
Questa domanda inizia ad avere senso dal 1983, ossia da quando il neurologo Benjamin Libet mostrò che qualsiasi movimento che ci sembra volontario è preceduto, in realtà, da un’ attività neuronale preconscia nella corteccia motoria: diventiamo consapevoli di voler muovere una mano solo 350 millisecondi dopo che il cervello si è preparato a muoverla. Ma allora da chi è partito l’ ordine? E’ da quel momento che un sospetto serpeggia tra gli scienziati: ciò che facciamo è frutto di scelte coscienti o è il mero effetto di microeventi elettrochimici impersonali e incontrollabili? Oggi la risonanza magnetica funzionale ci offre una visibilità mai avuta prima sul cervello in attività, e argomenti sempre più convincenti in favore di questa seconda ipotesi. Tanto da far apparire all’ orizzonte una vera e propria rivoluzione giuridica in grado di scardinare l’ idea di responsabilità personale. «Il diritto ha una concezione dell’ essere umano molto simile a quella del senso comune: di solito siamo persone libere, capaci di riflettere e di agire di conseguenza. La scienza invece propone un’ immagine quasi opposta: la nostra libertà è minima, siamo irrazionali e in gran parte inconsapevoli di come e perché agiamo» spiega Andrea Lavazza, studioso di neuroetica presso il Centro Universitario di Arezzo e autore insieme allo psicologo forense Luca Sammicheli del nuovo saggio Il delitto del cervello: la mente tra scienza e diritto (ed. Codice). «Ci avviamo a un bivio carico di conseguenze: identificare la mente col cervello, come fa la maggioranza dei neuroscienziati, mette in discussione i confini tra magistrati e consulenti scientifici. Un domani potremmo avere sentenze date in totale appalto alla scienza». «Si può pensare che, seppure in tempi lunghi, la prassi processuale cambierà per recepire almeno alcune delle nuove tecniche probatorie. Diventerà sempre più delicato il rapporto tra le pene classiche basate sul libero arbitrio – e le misure di sicurezza – basate sulla pericolosità sociale, determinata dal punto di vista cerebrale» spiega Luca Sammicheli «In altre parole, potrebbe prevalere l’ idea – molto controversa – che i criminali violenti non siano soggetti che scelgono di agire contro le leggi e per questo meritano una sanzione, bensì individui che non sanno controllarsi e perciò vanno messi in condizione di non nuocere». Si aprirebbe così la strada ad un sistema legale non più retributivo, ma preventivo, ossia teso a restringere la libertà degli individui – magari dopo inquietanti ma a quel punto razionali screening di massa – in base non ai reati commessi, ma alla predisposizione biologica al crimine. Minority Report è ad un passo. O più precisamente Lombroso Reloaded: «Qualora prevalesse l’idea del determinismo biologico nell’ agire criminale – cosa di per sé non ancora dimostrata si porrebbero questioni di politica legislativa non dissimili da quelle sollevate da Cesare Lombroso» commenta Andrea Lavazza «Il paradosso è che una posizione che si pretende perfettamente scientifica finirebbe con l’ arrivare alle stesse conclusioni sociali e giuridiche dell’ antiscientifico e “impresentabile” Lombroso: ossia, una risposta penale di puro controllo sociale nei confronti di soggetti “naturalmente” pericolosi e, probabilmente, irredimibili». Ma torniamo alla realtà: oggi le neuroscienze sono in tribunale e non pretendono, per ora, di sostituirsi al giudice. Piuttosto, lo aiutano: «Aggiungere alle perizie le nuove prove neuroscientifiche aumenta l’ affidabilità: ad esempio sistemi come l’Implicit Association Test ci possono rendere più sicuri di trovarci di fronte ad un’ amnesia autentica dell’ imputato piuttosto che ad una simulazione» spiega Luca Sammicheli. E proprio in questi giorni questo test, nella versione realizzata dal neuropsicologo Giuseppe Sartori specificamente per far emergere ricordi autobiografici e smascherare dichiarazioni false, è stato impiegato nell’ accertamento dell’ attendibilità di una donna che accusava il suo datore di lavoro di molestie sessuali. C’ è un altro caso che risalea qualche anno fa: nel 2009 l’ algerino A.B., che aveva ucciso un uomo dopo essere stato offeso, ottenne uno sconto di pena per semi-infermità mentale quando i periti mostrarono che i geni che regolavano il suo metabolismo cerebrale lo rendevano particolarmente impulsivo. «Ma è difficile ipotizzare la fine della responsabilità personale: è un concetto chiave per la nostra vita sociale e non ha un corrispettivo cerebrale, ossia non è localizzabile in un punto preciso della testa» chiosa Andrea Lavazza. «Certamente, però, l’ intuizione comune che siamo responsabili di un’ azione soltanto se siamo liberi di compierla o meno dovrà fare sempre di più i conti con due realtà: i geni hanno un ruolo nell’ indirizzare il nostro comportamento e il funzionamento del cervello può condizionarci in modi che ci sfuggono». Magari il cervello non sarà proprio il nostro mandante, ma di sicuro è perlomeno nostro complice. (© La Repubblica / Giuliano Aluffi)
Ottobre 30, 2014scienza