Il placebo è un farmaco. Non esiste fisicamente un principio attivo che giustifichi il suo effetto. Può essere una pillola di zucchero o acqua fatta passare per sciroppo. Eppure cura davvero, e può avere effetti pari o addirittura superiori a quelli dei farmaci veri. Perché attiva meccanismi biochimici in tutto simili a quelli usati dai principi attivi. «La cosa è affascinante anche da un punto di vista evolutivo: il nostro corpo ha dei meccanismi interni, come ad esempio il sistema endogeno oppioide e il sistema endocannabinoide, potenti analgesici, che si attivano anche solo ascoltando parole che suscitano aspettative positive o quando seguiamo un rituale terapeutico – una pastiglia, una puntura o altro – privo di principi attivi. Abbiamo la controprova che si tratta degli stessi meccanismi perché bloccando i recettori oppioidi, si blocca anche l’effetto placebo» spiega il massimo esperto italiano in materia, Fabrizio Benedetti. Benedetti insegna neurofisiologia all’Università di Torino, autore di ottanta pubblicazioni scientifiche su questo argomento e, da ultimo, del saggio L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo (Carocci, pp. 128, euro 12,40)
In che senso il placebo agisce come un farmaco vero? «Prendiamo la morfina: combatte il dolore agendo sui recettori oppioidi (ossia i punti del tronco cerebrale e del midollo spinale che, in presenza di molecole di morfina, inibiscono l’azione dei neurotrasmettitori impedendo al dolore di propagarsi ndr). Bene, il placebo fa sì che il cervello attivi le endorfine, ossia la nostra morfina naturale, che agiscono sugli stessi recettori e hanno effetto analogo. Un altro esempio? L’aspirina: agisce inibendo l’enzima cicloossigenasi, e il placebo, se chi lo assume si aspetta di guarire, agisce attraverso lo stesso meccanismo fisiologico». Cruciale è però la componente psicologica. Il placebo può eguagliare in efficacia i farmaci, ma è meno affidabile perché il suo effetto dipende da più fattori: il tipo di malattia, innanzitutto. Laddove la psiche ha un ruolo primario – dolore, ansia, depressione, disturbi del movimento – allora gli effetti del placebo sono evidenti. Un secondo fattore è la suggestionabilità, che può essere stimolata da medici molto abili a convincere il paziente e da tutto ciò che fa parte del «rito» terapeutico: L’ambiente (assumere un placebo in ospedale è più efficace che assumerlo a casa), i camici bianchi di dottori e infermieri, la forma, il colore, il marchio del placebo e il modo in cui lo si assume: un’operazione chirurgica placebo o un pacemaker placebo sono più efficaci di una puntura placebo, che a sua volta è più efficace di una pastiglia placebo. Ma anche con gli sciroppi i risultati non sono male: «L’effetto placebo arriva a determinare l’85 per cento dell’efficacia dei quelli antitosse, la cui sola efficacia farmacologica non supererebbe il 15 per cento dell’effetto complessivo». Il punto chiave è quello che gli psicologi chiamano «aspettativa di un beneficio»: «Le rassicurazioni di miglioramento da parte del medico, che accompagnano l’assunzione di placebo, hanno effetti fisici, ad esempio alleviano l’asma perché riducono la costrizione dei bronchioli» spiega Benedetti. Quello che non è chiaro è «dove» il pensiero diventi farmaco. «Ipotizziamo che la corteccia prefrontale dorsolaterale giochi un ruolo molto importante» spiega Benedetti «Poiché in tutti gli studi sul placebo si attiva costantemente. Ma c’è ancora molto da indagare».
Di certo nella cura via placebo ha una parte il «meccanismo della ricompensa»: il nostro cervello, in particolare il nucleus accumbens, ci gratifica rilasciando dopamina quando facciamo qualcosa di utile a sopravvivere, come mangiare, stare con gli amici o riprodurci. Anche il curarci è qualcosa che aumenta le nostre probabilità di sopravvivenza, così beneficiamo, già solo per il rituale terapeutico, di un rilascio di dopamina, prezioso per le malattie come il Parkinson, dove il placebo stimola gli stessi recettori della dopamina stimolati dai farmaci e causa un miglioramento analogo a questi, riducendo i sintomi del 50 per cento. È come se il cervello ci dicesse «fai bene a curarti» premiandoci con la dopamina.
Non sempre però l’effetto placebo funziona. «Per esempio non è mai stata dimostrata la sua efficacia nei tumori e nelle infezioni» puntualizza Benedetti. Inoltre questo effetto non è uguale per tutti: «Certi tratti di personalità favoriscono una buona risposta al placebo, per esempio l’ottimismo e la ricerca della novità».
Ma chi non è sensibile di natura all’effetto placebo non si scoraggi: «La risposta placebo può essere appresa: possiamo trasformare una persona non reattiva al placebo in una altamente reattiva» spiega Benedetti. «Tre ricercatori, Voudouris, Peck e Coleman, hanno mostrato come si fa: all’inizio si somministra un placebo presentandolo come una potente crema anestetica, e si induce dolore tramite piccole scariche elettriche su un campione di soggetti, identificando i più sensibili al placebo e i refrattari. Se prendiamo questi ultimi, e li sottoponiamo ancora all’esperimento ma, a loro insaputa, riduciamo l’intensità delle scariche elettriche, li convinceremo che la crema “funziona”. Il loro cervello assocerà la crema al calo del dolore. Dopo un po’ potremo sottoporli alla scarica iniziale, quella più intensa, e vedremo che la loro risposta è diventata uguale a quella dei più sensibili». Funziona anche con la morfina nella terapia del dolore: «Se prendi morfina lunedì e martedì, e mercoledì ti fanno la puntura ma senza morfina, con ogni probabilità quel mercoledì non soffrirai. Poi giovedì dovrai riprendere morfina, per “rinforzare” l’effetto: ma grazie al placebo puoi assumere minori quantità di morfina, che comunque è tossica, e stare bene ugualmente. Esperimenti mostrano che nel dolore post-operatorio questo sistema permette di assumere circa il 33 per cento di morfina in meno».
L’apprendimento del placebo funziona anche per il Parkinson: somministrare per un tot di giorni la reale medicina, come la levodopa, per poi rimpiazzarla di nascosto con una sostanza inerte produce un effetto placebo potente, anche se poco duraturo. Per rafforzarlo il medico deve suggerire ripetutamente che la terapia sarà benefica. L’interazione col medico è infatti un amplificatore formidabile per le cure placebo. «Lo sanno bene i curatori della medicina alternativa e dell’agopuntura, che investono moltissimo nell’ascolto del paziente e hanno una durata media di visita intorno all’ora, contro i pochi minuti medi dei medici occidentali» spiega Benedetti.
Febbraio 1, 2016scienza