La globalizzazione ci rende più collaborativi, ma meno originali e innovativi. «Lingue e dialetti stanno scomparendo a un ritmo sempre più elevato, sotto la spinta della tecnologia delle comunicazioni, del commercio globale e della facilità di viaggiare. Abbiamo oltre settemila lingue nel mondo, ma le dieci più diffuse (mandarino, inglese, spagnolo, hindi, bengalese, portoghese, russo, urdu, indonesiano e giapponese) sono parlate come lingua madre dal 50 per cento della popolazione e conosciute dal 90 per cento dell’umanità. Siamo instradati verso quella che io chiamo la fine dell’antropologia, visto che le diversità culturali si stanno estinguendo». A parlare è Mark Pagel, biologo dell’evoluzione tra i più influenti al mondo, docente all’Università inglese di Reading. Pagel interverrà oggi, 24 ottobre, a Udine e poi il 27 a Napoli al Future Forum, evento in partnership con l’Ocse che ospita oltre cento dibattiti sui cambiamenti sociali ed economici.
Secondo Pagel l’omogeneizzazione planetaria non è solo negativa. «Le culture sono potenti marcatori delle nostre identità tribali: se si uniformano sarà più facile cooperare tra popoli. Paradossalmente, però, insieme alla cooperazione crescerà la competizione: chiunque – individuo, scuola, azienda – competerà, ancora più di oggi, con tutto il mondo» spiega. Nonostante questo, perderemo qualcosa anche dal punto di vista della capacità di innovare. «La forza che ha influito sull’evoluzione umana ancora più dei geni e della biologia è sempre stata l’apprendimento sociale, ossia la capacità di osservare gli altri, copiare le migliori idee e tramandarle ai posteri perché le migliorino a loro volta. Ora però qualcosa in questa trasmissione culturale sta cambiando. È sempre esistito un conflitto interiore tra copiare gli altri e innovare, ma oggi i mezzi per apprendere in pochi secondi le innovazioni altrui, anche quelle pensate dall’altra parte del mondo, sono molto più potenti e accessibili che in tutta la storia precedente dell’umanità» dice Pagel. «E in un mondo più uniforme si sarà spinti sempre di più a copiare piuttosto che a innovare».
Del resto è proprio l’evoluzione che ha fatto di noi degli imitatori. «Negli ultimi 200 mila anni la selezione naturale ha premiato i più abili a copiare i comportamenti vantaggiosi degli altri» dice Pagel. «La comparsa del linguaggio ha poi permesso che le idee altrui venissero tramandate, sia nel tempo che nello spazio, in gruppi umani sempre più estesi». In questo processo lo svilupparsi di lingue diverse fu, secondo Pagel, la prima forma di copyright: «È servita soprattutto per contenere entro limiti accettabili il furto di idee da parte degli altri popoli. Tra i sistemi che abbiamo sviluppato per riconoscere le persone del nostro gruppo sociale, nel corso della storia, la lingua è il più sofisticato, in quanto assai meno falsificabile di tatuaggi, monili o acconciature. La maggiore proliferazione di culture e linguaggi avviene proprio dove i gruppi umani vivono a più stretto contatto e quindi è più vantaggioso, da un punto di vista tribale, difendersi dall’emulazione altrui. Sulle coste della Nuova Guinea, per esempio, in soli 785 mila chilometri quadrati sono nate oltre ottocento lingue distinte».